Il racconto del matrimonio di Giulia Farnese, avvenuto nel Palazzo Sforza Cesarini.
Tratto dal libro “Giulia Farnese, una donna schiava della propria bellezza” di Carlo Fornari, Silva Editore, Parma, 1995, pag. 62-63.
«L’ingresso in società di Giulia, se così lo si può definire, avvenne il 20 Maggio 1489, nella sala stellata del palazzo Borgia in Parione [oggi Palazzo Sforza Cesarini]. Quel giorno, sulla base degli sponsali concordati molti anni prima, furono fissati i preliminari del suo matrimonio con lo sfortunato Orsino Orsini. […] La sala stellata era un vasto ambiente al piano nobile destinato alle frequenti cerimonie della famiglia, degli amici, e di quanti alte autorità dello Stato, patrizi romani, personaggi importanti – erano degni di essere ospitati da una delle famiglie più illustri della Città Eterna. Il suo nome derivava dagli affreschi che ornavano il soffitto e che rappresentavano un limpido cielo blu cosparso di stelle dorate: un sorso di infinito, una rappresentazione peraltro diffusa nella iconografia medievale sacra e profana. […] Alla cerimonia erano presenti, oltre ai promessi sposi, il cardinale Rodrigo Borgia, vescovo di Porto, vice cancelliere di Santa Romana Chiesa; Bartolomeo Martinez, vescovo di Segovia; Francesco Gacet, canonico di Toledo e Giovanni Sraglia, cittadino romano. […] La dote di Giulia ammontava a tremila fiorini d’oro: una somma che poneva l’unione ad un ottimo livello nell’immancabile graduatorie delle famiglie patrizie. Del pagamento si resero garanti i fratelli di Giulia – Angelo e Alessandro – e gli zii materni Giacomo Caetani protonotario apostolico e Cola Caetani, entrambi figli di Onorato e di Caterina Orsini. Il matrimonio seguì l’anno successivo e fu festeggiato, sempre negli appartamenti della famiglia Borgia, il 9 Maggio 1490, alla presenza – riferiscono le cronache – di centinaia di invitati. ».
Per approfondire
Giulia Farnese (1475-1524)
Giulia Farnese nacque probabilmente nel 1475 (forse a Capodimonte) da Pier Luigi Farnese e Giovannella Caetani. La madre la inviò a Roma all’età di quattordici anni per completare la sua educazione e con il preciso intento di trovare il modo di introdurre la fanciulla nell’aristocrazia romana, alla ricerca di privilegi e concessioni.
Le cronache del tempo narrano di una Giulia bellissima, forse la donna più bella del Rinascimento. Grazie anche a questa sua virtù il casato Farnese si elevò ad un posto di prim’ordine nella storia dell’epoca. Purtroppo di lei non si hanno molte notizie, nemmeno un ritratto certo: la sua figura sfuggente e “disonorata” è ricordata solo per la sua leggendaria bellezza che la portò ad essere chiamata, quale amante di Papa Alessandro VI Borgia (1431-1503), con l’appellativo di ‘Sponsa Christi’.
Durante le mie ricerche storiche sui rapporti tra le famiglie Farnese e Caetani, partendo dall’analisi del suo testamento – ho avuto modo di scoprire una figura di donna “inedita”, dotata di grande intelligenza, controllo di sé stessa, generosità, rispetto ed amore per il prossimo: tutte qualità che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua breve vita.
« Sapendo che in questa fragile vita l’umana nostra natura, dopo l’errore dei primi lontani uomini, è sottomessa alla morte […] » questa è una delle frasi che aprono il testamento di Giulia, redatto il 14 marzo 1524 « in Roma nel rione Arenula nella camera di abitazione della stessa testatrice in vista della chiesa di San Girolamo [….] ». Giulia è ormai una donna matura che riconosce i propri errori grazie ai quali però ha vissuto una rinascita come la leggendaria “Fenice”, che fa inserire, infatti, tra le immagini affrescate nel suo castello di Carbognano.
Visse nello sfarzo di corte, follemente amata da un papa che le procurò non pochi vantaggi economici, tanto da essere tra le donne più ricche e facoltose del tempo. Come scrisse Lorenzo Pucci nel gennaio 1494: « a un orafo intendo che li fanno anelli per mille ducati […] e il povero Cardinale [il fratello Alessandro Farnese] non ha da vivere », tanto da soffocare nei debiti (Picotti 1928).
Giulia riuscì ad ottenere il Cardinalato per il fratello Alessandro e ne fu anche sostenitrice finanziaria
Una voce raccolta dal Sanudo (Diarii, I, Venezia 1879) nel febbraio 1498: « il fratello di madonna Julia, per esser povero Cardinal, pareva volesse refutar il cappello » e come sostiene lo Zapperi: « secondo un accertamento fiscale della Camera Apostolica nell’autunno del 1500, la sua rendita annua era bassissima, di soli 2.000 Ducati e lo collocava tra i membri più poveri del Sacro Collegio. Stando così le cose non si capisce come abbia potuto acquistare il 30 Gennaio 1495, il palazzo romano del Cardinale Pietro Ferriz, prima base del futuro Palazzo Farnese, per la cospicua somma di 5.500 Ducati. Certo non con i proventi della Legazione del Patrimonio (il primo stipendio di 100 Ducati gli fu pagato il 18 Novembre 1494) ».
Si può ragionevolmente credere che l’acquisto fu possibile grazie alla generosità della sorella Giulia la quale, come già evidenziato, aveva notevoli disponibilità economiche. Giulia ebbe la possibilità di essere una donna libera e indipendente nel momento in cui ebbero termine l’importante rapporto con Papa Borgia (morto nel 1503) e quello con lo sfortunato marito Orso Orsini (morto prematuramente nel 1500); di lì a poco vide anche realizzato il tanto agognato matrimonio (novembre 1505) di sua figlia Laura con il nipote di Papa Giulio II Della Rovere, che le causò un esborso di 30.000 ducati oltre a gioielli, stoffe e arredi preziosi (Piccotti 1928).
Dopo tali accadimenti Giulia visse tra Carbognano e Roma, dove possedeva una casa attigua a Palazzo Farnese nel Rione Arenula che nel 1512 cedette alla figlia. Nel testamento di Giulia risultano evidenti la personalità ed il tipo di vita che l’accompagnarono nella seconda parte della sua esistenza, periodo in cui visse libera e non più sottomessa a passioni ed intrighi.
Dopo aver lasciato istruzioni per la costruzione di una cappella nella Chiesa di Santa Maria in Carbognano e per l’acquisizione di un dipinto della Vergine Maria che sarebbe stato custodito nella cappella stessa nonché degli oggetti sacri ad uso della medesima, ed inserito un lascito di denaro per l’acquisto di poderi nella terra di Carbognano per il sostentamento della Chiesa e del Cappellano, iniziano le disposizioni per le donne che la servirono con affetto.
Giulia si preoccupò soprattutto di lasciare:
• Duecento ducati carlini per il matrimonio di povere ed oneste ragazze di Carbognano (scelte dalla sua servitrice ed amica Signora Honofria di Spoleto, terziaria francescana);
• Cento ducati (in aggiunta ai precedenti) per maritare povere ed oneste ragazze e per il sostentamento di persone povere;
• Ottanta fiorini a Berna di Carbognano, sua ancella, comprensivo di “tutte le altre cose che secondo consuetudine ed uso della terra di Carbognano si suole dare alle ragazze che si sposano”: anche nel caso che Berna non s i fosse sposata il lascito doveva essere rispettato, per i “buoni servigi”;
• Ottanta fiorini alla Signora Aurelia e Rosa di Carbognano come dote per il loro matrimonio che dovevano essere corrisposti “ anche se non si sposassero” e nel caso non avessero avuto figli legittimi, o naturali, le signore erano tenute a lasciare legati in beneficenza. Erano altresì libere di scegliere se rimanere a servizio dell’erede Laura, sua figlia, senza costrizione di nessuno;
• Quaranta ducati carlini da consegnare ad Honofria, subito dopo la morte della testarice, a integrazione dei cento che a suo tempo le furono dati a seguito dei suoi servigi e per la dote a lei promessa;
• Usufrutto, per Honofria, della casa che la testatrice fece costruire a Carbognano, adibita ad abitazione del Podestà, e un appezzamento di terra in Carbognano per farne una vigna ad uso congiunto con la sorella Orsolina e con diritto alla loro morte di trasmetterne l’usufrutto ai nipoti Mario o Luca, i quali però erano tenuti a corrispondere le tasse alla Curia di Carbognano;
• La stessa Honofria veniva poi totalmente liberata da qualsiasi necessità di rendiconto su tutte le sue attività di amministrazione svolte e sui guadagni conseguiti poiché « […] si è sempre resa fedele nell’ amministrazione. Perciò nulla si deve pretendere da lei » e le veniva altresì riconosciuta la libertà di entrare nei possedimenti della testatrice nel territorio di Carbognano e di cogliere ogni genere di frutta;
• Lascia inoltre ad Honofria un materasso ed una coperta insieme a lenzuola, tovaglie, panni ed asciugamani. Grano, vino, maiale e sei ducati l’anno insieme all’elargizione di eventuali spese future in caso di malattia;
• Quattordici ducati ad Orsolina, domestica della testatrice;
• Quaranta ducati a Lucia, servitrice della testatrice, in aggiunta alla casa e al terreno che già ricevette in dote a Bassanello. In caso di vedovanza le sarebbero spettati: vino, grano e sei ducati ogni anno della vedovanza. A suo marito Camillo da Viterbo lasciava cento ducati carlini con i quali era tenuto ad acquistare possedimenti stabili a Bassanello o dove voleva, da lasciare in eredità ai figli suoi e di Lucia;
• Dieci ducati per Agnese da Ischia, sua nutrice, ordinando a Laura sua figlia ed erede che la sostentasse con vitto e vestiario e sette ducati l’anno, trattandola con umanità e carità come sempre fece lei. Aggiunge trenta ducati, da usufruire per tutta la vita, che Agnese è tenuta a lasciare in eredità a suo nipote Pompeo. Lascia libera Agnese di decidere se andare a vivere con Laura ed in caso positivo aggiunge altri beni alimentari da corrispondere annualmente;
• Venticinque fiorini al suo servitore Diomede e a prete Giovanni da Carbognano, al servizio della testatrice; venti fiorini a Leandro Rogazio per l’acquisto di un terreno a Carbognano, venti fiorini a Girolamo Roberteschi di Orte, per servizi da lui sostenuti;
• Cinquecento pecore e una sua veste di taffettà nero ad Isabella sua nipote, figlia di sua sorella;
• Cinquanta scrofe, cinquanta capre, otto giovenchi per il lavoro dei campi ed una sua veste di velluto nero a Costanza sua nipote, figlia di suo fratello Card. Alessandro Farnese;
• A suo fratello Card. Alessandro lasciò un letto, materassi e pezzi di biancheria varia, scelta dalla fedele Honofria;
• Tutti i beni mobili ed immobili furono lasciati in eredità a sua figlia Laura disponendo che lei e i suoi discendenti dessero vitto e cibarie a sette poveri di Carbognano dispensati da Honofria e successivamente in perpetuo dagli eredi della testatrice;
• Settantacinque ducati d’oro per le rispettive chiese di Santa Maria degli Angeli e Vergine Maria di Loreto, perché legata da un voto.
Voglio ricordare che Giulia fece redigere il testamento pochi giorni prima della morte, nel marzo del 1524, epoca in cui le donne non avevano altra scelta se non quella di sottomettersi all’uomo e vivere nell’ignoranza; epoca in cui non esisteva la possibilità di disporre del denaro “dotale” o di amministrare l’economia della propria famiglia. Nel testamento troviamo la grande generosità di Giulia e la sua amorevolezza per le donne.
La sua preoccupazione è di costruire una sicurezza economica a coloro che l’hanno accompagnata durante tutta la vita. Ad Honofria, governante ed affezionata amica, concede denari e assistenza oltre a rinnovarle il ruolo di amministratrice di Carbognano senza impedimento di alcuna persona. Pensa alla cara nutrice Agnese che affida alla figlia Laura, ricordandole di trattarla con umanità ed amore. Ricorda affettuosamente anche le ragazze povere di Carbognano, che l’avevano conosciuta come Signora benevola e riconoscente del loro onesto lavoro di serve, procurando ad alcune di loro una dote che le rende “libere” di disporre comunque dei denari anche senza matrimonio! Possiamo affermare perciò che il suo è un testamento al femminile.
Troviamo quindi una Giulia Farnese “sovrana” e “madre” che non pensa solamente ad elargire semplici lasciti di denaro, bensì cerca di assicurare un futuro sereno alle sue donne attraverso dettagliati elenchi di consegne alimentari, arrivando addirittura a chiedere ai propri eredi futuri di procurare in perpetuo vitto ai poveri di Carbognano.
È insomma il ritratto di una donna che è riuscita a metabolizzare il potere che le era stato concesso ed al contempo “purificarsi” dalle ipocrisie di Palazzo. Lei, ragazzina di quattordici anni, spinta tra le braccia di un potente, attempato Cardinale, invidiata per la ricchezza che derivò dal suo ruolo di amante papale, usata dalla madre, dalla suocera e da suo fratello Alessandro, era riuscita a compiere una “catarsi” interiore ed esteriore. Mai si piegò ad un ruolo di donna sottomessa, anzi, fu colei che propiziò la trasformazione dei Farnese da semplici nobilotti di provincia a signori e principi rinascimentali, identificandosi con l’emblema familiare: l’unicorno al quale associò l’immagine di una giovane dama che ancora oggi possiamo ammirare nelle sale del suo Castello a Carbognano.
La rocca di Carbognano, castello di Carbognano (VT)
(foto tratta dal sito http://www.comune.carbognano.vt.it) Fanciulla che disseta l’unicorno
Rocca di Carbognano
Inoltre riuscì a distaccarsi dal suo ruolo di amante papale e a mantenere il suo ruolo di nobile dama. Quando i Borgia caddero in disgrazia dopo la morte di Papa Alessandro VI (agosto 1503), lei aveva già un’altra vita. Si risposò a Napoli nel 1506 con un nobile napoletano, Giovanni Capece Bozzato, venuto a Roma qualche anno prima al seguito della principessa Sancia D’Aragona. I pettegolezzi dell’epoca vogliono ricordare quest’uomo come un personaggio molto amato dalle donne di corte perché sembra possedesse grandi qualità amatorie. Giulia però a dispetto di tutte le malelingue fece una scelta d’amore anche se terminò molto presto, nel 1517 infatti, rimase vedova per la seconda volta.
Giulia morì nella sua casa adiacente a Palazzo Farnese, circondata dai frati della Confraternita di San Girolamo della Carità, residenti nell’omonima Chiesa che lei poteva vedere dalle finestre della sua camera. In questa chiesa, sono convinta, è stata sepolta, diversamente dalla sua richiesta testamentaria di far trasportare il suo corpo alla chiesa dell’isola Bisentina dove « […] i suoi progenitori ed antenati erano stati sepolti ». Quando Giulia morì, per cause a noi sconosciute, la peste aveva ricominciato ad imperversare a Roma rendendo difficoltoso, perciò improbabile, il trasporto del corpo nella – non proprio vicina – Isola Bisentina.
Castello Ruspoli Marescotti – Vignanello (VT)
(foto P. Rosini)
Cappella di Ortensia Farnese Sforza Marescotti
Chiesa di San Girolamo della Carità di Roma (foto P. Rosini)
Oggi nella suddetta chiesa di San Girolamo troviamo comunque la cappella di una dama Farnese: è quella acquistata dalla nipote, Ortensia Farnese Sforza Marescotti (figlia di Antonio Baglioni, Signore di Castel di Piero e di Beatrice Farnese dei Signori di Latera (+ 1583), erede dei feudi di Vignanello e Parrano) ed ora ivi sepolta (1584) accanto al figlio Alfonso Sforza Marescotti (1604).
Giova qui ricordare che Bartolomeo Farnese, fratello di Giulia, dette vita al ramo cadetto di Latera (VT) e quindi Ortensia rientrò tra le nipoti che Paolo III protesse per tutta la sua vita. Ortensia in particolare ebbe una vita molto movimentata, numerosi mariti, figli e problemi economici a non finire. Varie sue lettere sono conservate presso l’Archivio di Parma, dove raccomandazioni, preghiere e richieste di protezione, al pontefice prima ed al Cardinale Alessandro Jr poi, ci danno l’idea dell’affetto e l’unione che i Farnesi avevano tra loro. Ortensia venne sempre chiamata con il cognome della madre Beatrice e mai “Baglioni”, segno che la protezione familiare si accentuò non poco nei confronti di questa sfortunata Farnese. Non sappiamo perché Ortensia scelse proprio la chiesa alla quale Giulia fu molto legata, ma è possibile che se in quel luogo fosse esistito il sepolcro della sua ava, avrebbe avuto un motivo in più per chiedere al Card. Alessandro Jr d’intercedere presso i ‘Padri della Carità’ affinché le concedessero l’autorizzazione a proseguire i lavori di costruzione della sua Cappella di famiglia.
Felice Della Rovere
ritratto di Raffaello Sanzio
tratto da: www.carlottersen.net/Project-01%20Felice/Preface.htm
Papa Giulio II Della Rovere
Raffaello Sanzio, Londra National Gallery
tratto da: http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:09julius.jpg?uselang=it
Il racconto del matrimonio di Felice Della Rovere, figlia di Papa Giulio II, avvenuto nel Palazzo Sforza Cesarini.
Tratto dal libro di Caroline P. Murphy, La figlia del papa, Il Saggiatore, Milano, 2007, pagg . 100-104.
“Le nozze di Felice Della Rovere si tennero tra il 24 e il 25 Maggio 1506. Giulio II emise un’ordinanza pubblica che bandiva qualunque festeggiamento pubblico dell’evento: « Il papa non à voluto far dimostration, per esser sua fiola, come fè papa Alexandro» scrisse Sanuto . La cerimonia nuziale non ebbe luogo al palazzo Vaticano, ma nel palazzo di proprietà del cugino di Felice, Galeotto Franciotto Della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, che aveva preso parte ai negoziati per il trasferimento della dote di Felice a Gian Giordano. Tale palazzo, noto allora come Cancelleria e oggi come palazzo Sforza Cesarini, era stato edificato nel 1458, quando il committente Rodrigo Borgia, nemico giurato dei Della Rovere, era ancora cardinale. La famiglia Della Rovere se ne appropriò per delimitare il proprio territorio sul lato opposto del fiume rispetto a palazzo Vaticano. Giulio avrebbe presto dato il via alla costruzione di una strada che costeggiasse il palazzo, chiamata via Giulia, che in base ai canoni antichi fu realizzata diritta come una freccia, in netto contrasto con il groviglio di stradine della città medievale.
Felice si sposò dunque in un ambiente vicino alla sua famiglia, ma la Cancelleria era piuttosto distante da palazzo Vaticano, dove si erano tenute le nozze dei cugini. Inoltre, Giulio, il cui nome non compare mai nella quietanza della dote, fu vistosamente assente alle nozze. Paride Grassi, meticoloso maestro di cerimonie del palazzo Vaticano, fu incaricato dell’organizzazione e scrisse un lungo resoconto degli avvenimenti.
Diversi aspetti dell’evento furono per lui decisamente sgradevoli. Descrisse l’unione come «doppiamente bigama» con riferimento al fatto che sia Felice che Gian Giordano erano stati sposati in precedenza, e si dichiarò dubbioso in merito al fatto che l’unione dovesse ricevere una benedizione ecclesiastica ufficiale . Le nozze si svolsero in due riprese: la prima, di domenica, consistette in un annuncio dei termini del matrimonio. Nessuna donna partecipò a questa trattativa cerimoniale, compresa la stessa Felice che venne rappresentata dal cugino Galeotto Franciotto Della Rovere. Frai i presenti c’erano dodici cardinali, undici dei quali, notò Paride Grassi, indossavano copricapo rossi, mentre uno, Giovanni de’Medici, il futuro papa Leone X, aveva scelto di indossarne uno color porpora. Giovanni de’ Medici era un Orsini da parte della madre Clarice, quindi forse si sentì autorizzato a distinguersi dagli altri. «[…] erano presenti lo zio di Felice, Giovanni Della Rovere, prefetto di Roma, così come gli ambasciatori francese, spagnolo e imperiale, oltre a numerosi membri della famiglia Orsini ».
Questa prima parte della cerimonia si svolse nel salone della Cancelleria. Paride Grassi aveva approntato una stanza con tappeti, dodici poltrone per i prelati e uno scranno con un cuscino di velluto per il prefetto. Gli altri ospiti sedevano su lunghe panche rivestite in pelle, sistemate sui quattro lati della stanza. Arrivarono due notai, il signor Tancredi della Camera Apostolica per la parte della sposa e, per parte del marito, Prospero d’Acquasparta, che annunciò la somma della dote di Felice e i termini della cessione. Mentre si sbrigavano le formalità Gian Giordano non rimase seduto ma andò a salutare i nuovi parenti, Galeotto e Giovanni Della Rovere.
Il giorno seguente si svolse la vera e propria celebrazione nuziale. Paride Grassi riferisce che Gian Giordano Orsini non volle attenersi alle tradizioni di Roma e seguì quelle francesi e spagnole. Per superstizione, il marito preferì che gli anelli nuziali non venissero esibiti ma che fossero messi al dito del celebrante, suo cugino Rinaldo Orsini, arcivescovo di Firenze. Gli anelli di per sé, notò poi Paride Grassi, erano poca cosa, e valevano meno di un paio di ducati. Anche se la cerimonia sarebbe dovuta iniziare alle quattro in punto, all’ultimo momento, a causa dei responsi astrologici, Gian Giordano insisté per ritardarla fino alle sette, e Felice fu obbligata ad aspettare seduta nella cappella per tre ore. Nel frattempo lo sposo arrivò alla Cancelleria, « non in abito nuziale ma in tenuta da caccia, con gambali di cuoio e rozzi stivali, un cappello di feltro di nessun valore, la barba irsuta, spettinato e in abiti funesti». Sfruttò il ritardo per convocare un barbiere e vestirsi in modo più appropriato, con una tunica di velluto, un cappello e una catena d’oro. Grassi non si sofferma sull’abito da sposa di Felice, né specifica se portasse o meno gioielli, il che lascia intendere che fosse vestita in modo molto sobrio.
Gian Giordano introdusse nella cerimonia diversi elementi completamente sconosciuti sia alla moglie sia agli astanti. A un certo punto si tolse un fazzoletto dal farsetto e lo porse al celebrante, spiegandogli di darlo alla moglie la quale, era evidente, non sapeva cosa farci; e questo non fu l’unico motivo di imbarazzo per la povera Felice: in seguito allo scambio degli anelli e dei voti e dopo che gli sposi furono dichiarati marito e moglie, Gian Giordano si voltò verso di lei e le diede quello che Paride Grassi chiama in latino osculo galico, un bacio alla francese, «cioé» scrisse «un bacio mordendo le labbra di lei con la propria bocca, che la fece arrossire e provocò meraviglie e risate in molti astanti».
Dopo l’osculo galico, Gian Giordano e Felice consumarono immediatamente il matrimonio nella stanza da letto del cardinale Galeotto Della Rovere, senza dubbio arredata con sfarzo. Tale prassi assicurava che nessuna delle due parti potesse tentare di annullare il matrimonio sostenendo che non fosse stato consumato. Almeno fu risparmiato loro di avere testimoni, dato che Paride Grassi sottolinea che non era presente nessuno degli ospiti. Ciò non impedì tuttavia a coloro che stavano fuori della stanza di fare congetture su quanto accadesse al suo interno. Emilia Pia, in un resoconto del momento inviato a Isabella d’Este, dichiara che «Zordano piglò[pigliò] la sposa et la menò in uno camerino et lì stetero uno quarto d’ora et […] molti credeano che facessino altri secreti», con riferimento all’inaspettato ed esotico bacio alla francese.
Dopo questo breve atto di unione sessuale, il banchetto nuziale si trasferì a Monte Giordano.[…] Emilia Pia, offre un resoconto schietto di quanto accadde dopo che gli ospiti lasciarono la Cancelleria. Sarebbe stato appropriato e decorose che il corteo nuziale, nel tragitto dalla Cancelleria a Monte Giordano, passasse da via Papalis, l’arteria centrale che collega i due palazzi. Al contrario, passò a piedi per uno squallido vicoletto, via del Pozzo Bianco, che prende nome da un sarcofago in marmo bianco usato come fontana di acqua potabile. Il tragitto fu breve ma in tutto e per tutto sconveniente. Scrisse Emilia Pia: « Lui volea passare per una certa via dicta Pozo Bianco dove stanno femine de mala vita, pure li fò dicto tanto che piglò [pigliò] una [altra] via et le donne quale erano cum madonna Felice forono madonna Julia[Farnese, madre di Laura Orsini, la nuova moglie di Niccolò, cugino di Felice] et la figlia et le sorelle de San Pietro ad Vincula: et madama Julia se voltò e disse cum certi che al Signore sposo non mancava altro per essere un gintil Signore se non quello havea facto in quello viazo: et come forono appresso Monte Zordano forono butati per le finestre molti confecti […] . Il giorno successivo a questo evento fuori dal comune e per molti partecipanti, fin troppo esotico, la coppia lasciò Monte Giordano. All’aurora, scrisse Paride Grassi « Gian Giordano partì per Bracciano, dove avrebbe lasciato la moglie»
Felice Della Rovere (1483- 1536)
Figlia naturale di papa Giulio II (Giuliano Della Rovere) (1443-1513) e di Lucrezia Normanni, una donna romana di buona famiglia. Felice nacque a Roma forse nel 1483 e molto probabilmente prima della sua nascita la madre Lucrezia andò in sposa a Bernardino De Cupis, un maggiordomo di casa Della Rovere, consentendo in questo modo di mantenere madre e figlia nell’orbita della famiglia paterna di Felice. Contrasse un primo matrimonio tra il 1497 e 1498 con un uomo, probabilmente originario di Savona o Genova, di cui non conosciamo l’identità. Di certo nel 1504 la giovanissima Felice era già soddisfatta della sua condizione di vedova.
Nel 1506, dopo aver respinto vari pretendenti scelti dal padre, acconsentì a sposare Gian Giordano Orsini (1460-1517) di vent’anni più grande di lei, vedovo di Maria d’Aragona, figlia illegittima del re di Napoli, da cui ebbe Francesca, Carlotta e Napoleone.
Il rito nuziale si svolse nel palazzo della Cancelleria Vecchia (oggi Palazzo Sforza Cesarini) che ospitava Galeotto Franciotto Della Rovere. Gian Giordano e Felice ebbero quattro figli, Francesco, Giulia, Clarice e Girolamo, quest’ultimo nell’Ottobre del 1537 sposò Francesca Sforza dei conti di Santa Fiora, figlia del conte Bosio Sforza e Costanza Farnese (figlia naturale di Papa Paolo III). Il matrimonio fu celebrato sontuosamente, la giovane Sforza indossava gioielli d’oro disegnati dall’orafo Benvenuto Cellini. Da questa unione nacque Paolo Giordano Orsini.
Nel 1522 Felice ebbe in affidamento per qualche mese Caterina de’ Medici di appena tre anni, senz’altro quest’ultima dovette conservare un bel ricordo se una volta divenuta regina di Francia, inviò le sue congratulazioni per le nozze di “sua sorella” Clarice.
Felice Della Rovere morì a Roma nell’Ottobre del 1536; “Patrona et Gubernatrix”, fiera di essere la figlia di Giulio II, astuta e risoluta commerciante delle risorse agricole delle tenute Orsini, divenne reggente di una famiglia e per recuperare il patrimonio degli Orsini vendette i suoi beni. Fu dimenticata dalla storia, il castello di Bracciano da lei molto amato e dove partorì i suoi figli, c’é ancora ma le guide non la nominano mai.